Storia e Tesori da riscoprire
Abbazia di San Pietro a Modena

a cura di Rosalba Caffo Dallari - foto Archivio abbaziale

MV Art & Design

Una silenziosa piazzetta recentemente sistemata con pietra di porfido grigio e ciottoli di fiume, ospita l’Abbazia che è il più bell’ esempio di stile e cultura rinascimentale del contesto modenese. Mi piace raggiugerla ed entrare, ripercorrendone la storia, una sorta di passeggiata salutistica per la mente! Segnala il luogo sacro la caratteristica “Croce di San Pietro” su colonna, con capitello dai leoni affacciati ai quattro angoli e sostenuti da foglie di acanto, mentre la croce greca posta su sfera reca sul recto la figura del Cristo e sul verso quella di San Pietro. Si dice che qui sorgesse un antico tempio romano dedicato a Giove Capitolino, databile intorno al 270 a. C., che però, a partire dal 93 d.C., divenne il luogo dove l’ateniese Dionigi Areopagita e il vescovo Eutropio accoglievano la prima comunità cristiana modenese, dopo aver dedicato il tempio a San Pietro.
Luogo appartato, ai confini con la campagna, fra canali che lo definivano quasi un’isola e che ancor oggi ne segnano la topografia sotterranea, com’è intuibile anche dai nomi delle vie adiacenti. Nel IV secolo d. C., era la meta, si narra, del Vescovo Geminiano, che, durante la notte e percorrendo una via sotterranea, si recava a pregare in questa chiesa dedicata al primo Papa della Chiesa, cercando, in un colloquio intimo e diretto con l’Onnipotente, di perorare le necessità dei suoi concittadini. Si dice anche che la Croce di San Pietro sia l’unica superstite di una serie, posta dal Vescovo Geminiano tutt’attorno alla città a sua protezione contro l’entrata del demonio; ancora oggi è colonna di devozione, e viene ornata con rami d’ulivo il venerdì santo, poiché costituisce il punto di raccolta e partenza per la prima via crucis alle ore sei del mattino.
Il 996 vide la comparsa, accanto alla chiesa, di un monastero benedettino ad opera del Vescovo Giovanni, e, nel 1188, l’intero complesso venne incluso entro la cinta muraria che era stata innalzata attorno alla città. Seguirono tempi bui, e solo nel XV secolo, al termine di un periodo di decadenza, i monaci diedero il via ai lavori di ricostruzione dell’edificio, che si trovava in pessime condizioni di stabilità. La nuova chiesa fu compiuta nelle sue parti principali nel 1506 e consacrata nel 1518, cui si aggiunse nel seicento il curioso e inusuale campanile a vela.
In età napoleonica il monastero fu soppresso e parte dell’edificio fu utilizzato come caserma di cavalleria.
La chiesa rimase tuttavia aperta e attiva, e nel 1876, il Priore Giovanni Borcesi avviò un’imponente campagna di restauri che, nel 1911, portò al rientro della comunità monastica.
Altre destinazioni e proprietà hanno stravolto ancora la struttura abbaziale, sottraendo collegamenti che ostacolano la lettura del complesso nei suoi momenti di apogeo.
Lo sguardo scorre sulla via che si presenta compatta, e individua la facciata, rivolta, con il rinnovamento rinascimentale, verso il Palazzo Estense, definita dal caldo colore del cotto, che campisce ampi spazi, mentre un fregio modellato in terracotta, di soggetto mitologico, opera dei modenesi Andrea, Camillo e Paolo Bisogni, l’attraversa orizzontalmente. Quattro paraste ne indicano la suddivisione in tre settori, entro cui s’inseriscono i portali d’ingresso in marmo, e due ali, corrispondenti alle navate laterali delle cappelle. L’ordine superiore della facciata enfatizza le tre parti corrispondenti alle tre navate principali, e inserisce, in alternanza ai piccoli oculi sui portoncini, un ampio rosone al centro, coronato da una cuspide. Facendo scorrere lo sguardo sugli ornamenti, si individua il ricorrente ricorso agli stilemi di fiori e foglie, rosa canina, tulipano, acanto! Varcata la soglia, si apre con grande respiro l’interno della chiesa, ripartito in cinque navate da possenti pilastri trilobati, uno spazio che percepisco umile e ricco nello stesso tempo, scandito da opere realizzate in tempi diversi e successivi. Francesco Bianchi Ferrari, Ercole dell’Abate, Ercole Setti, Giovanni Taraschi, Filippo da Verona, Sassoferrato, Gian Gherardo delle Catene, Pellegrino Munari, si esprimono nelle 16 cappelle laterali, concesse dai padri benedettini per essere ornate, secondo una sorta di disciplinare ben definito, ad alcune illustri famiglie modenesi, anche se con contrasti, scontenti, abbandoni.
Mi incantano i bellissimi paliotti in scagliola degli altari, con decori che rimandano a trine, pizzi e ricami di tovagliati e paramenti tessili ecclesiali, monocromi o dai svariati colori, con soggetti diversi contornati da fiori e racemi per racconti edificanti dedicati ai fedeli.
Sei coinvolgenti statue di Antonio Begarelli, abilissimo modellatore della terracotta, raffiguranti San Francesco, San Bonaventura, la Madonna con il Bambino, Santa Giustina, San Pietro e San Benedetto, raccolti in San Pietro da luoghi diversi e in momenti successivi, scandiscono i pilastri, conducendomi con reverenza e per inviti quasi processionali all’altare maggiore.
Ma mi obbliga ad una sosta ammirata l’organo monumentale del 1524, opera del bresciano Giovanni Battista Facchetti. L’organo a canne si deve all’artigiano Gian Battista Facchetti, celebrato autore di altri importanti realizzazioni. È uno dei più importanti organi d’Italia, che esibisce una Tribuna dipinta ad affresco, opera di Giovanni Taraschi. Il pontile che collega lo strumento al monastero, e la cantoria, raffigurano nei sottarchi Storie di David, e lungo la balconata Il trasporto dell’arca santa, con rimandi figurativi a Giulio Romano e ai cartoni di Raffaello per gli arazzi della Cappella Sistina, noti attraverso stampe e incisioni. Una preziosa decorazione pittorica, fragile per struttura dell’organo e conseguenti dissesti, è stata ancor più danneggiata dal sisma del 2012. Dell’organo originale erano rimaste solo le canne di facciata, mentre la restante parte fonica era stata ricostruita sul modello dell’organo originale nel 1964, su progetto di Luigi Ferdinando Tagliavini e Paolo Marenzi; il complesso è stato allora oggetto di restauro per concorso di importanti enti e fondazioni, e affidato a controlli esecutivi deputati che ne hanno consegnato l’esecuzione a mani capaci. Oggi è un grande piacere ascoltarne la voce durante i concerti importanti organizzati da associazioni esperte, ma sufficit, per il piacere dell’anima, capitare in chiesa durante i momenti di esercizio di un maestro organista e sedersi lasciandosi prendere dai suoni per accogliere sensazioni diverse!
Sono giunta alla crociera, e mi chiama a destra del presbiterio ancora un’opera del Begarelli, posta nella cilestre nicchia azzurro cielo - inteso come sede di Dio e degli spiriti beati- della Cappella del SS. Sacramento, che espone la pietosa deposizione del Cristo morto, sovrastante l’altare. Ma accanto è collocata l’ultima complessa e delicata opera dell’artista, l’ancona in terracotta detta l’altare delle Statue, raffigurante, sotto la protezione di Dio padre e due angeli, la Madonna in Gloria e i Santi Pietro, Paolo, Geminiano e Benedetto, divenuta poi l’emblematica conclusione di una vita, che una lapide alla base ricorda, collocata in occasione del trasporto delle spoglie dell’artista in questo luogo, avvento nel 1875.
In fondo alla navata centrale, un grande frontone sovrasta l’altare maggiore, opera del 1866 di Ferdinando Manzini e Carlo Goldoni, in cui è dipinta la consegna delle chiavi a San Pietro da parte di Cristo, mentre nell’abside si conservano importanti interventi di Romanino, Carnevali, Giovanni Battista Ingoni e Francesco Stringa. Il cinquecentesco coro ligneo è di Gian Francesco Testi con interventi nel secolo successivo di Daniele Canozi da Lendinara, che mi attira in particolare per gli intarsi più complessi delle parti superiori, dove si alternano motivi geometrici a losanga e vedute urbane più complesse. Alessandro Tassoni, ironico, mi ammicca dalla lapide commemorativa in cotto dello scultore Vittorio Magelli e mi induce ad alzare lo sguardo che viene catturato dai ramages di gelsomini bianchi e rossi che fioriscono dipinti sul sotto pontile dell’organo, e che mi suggeriscono di avviarmi, seguendone i pergolati dei locali antistanti, verso un luogo che sorprende!
La Sagrestia maggiore apre le porte dell’Eden con gli affreschi del 1522 di Girolamo da Vignola, che ne illustrano i frutti e i fiori in ghirlande e lunette, e con un trionfante pergolato sulla volta di rose rosse che si apre sul trionfo del Cristo risorto. Gli armadi, eseguiti da Gianfrancesco Brennona da Cremona che li avrebbe terminati nel 1548., rivestono in continuo le pareti, sciorinando specchiature intarsiate con scorci urbani poste sui sottostanti banconi dagli sportelli decorati con nature morte. Accedo alla Sala del Tesoro, ubicata accanto, dove si conservano molte preziose reliquie di santi, custodite in appositi contenitori che ne identificano l’appartenenza tra cui il capo di san Cesario di Terracina - il santo tutelare degli imperatori romani -il piede di Santa Maria Maddalena, un frammento osseo di San Benedetto da Norcia, unite a tante altre suppellettili sacre in metalli preziosi molto pregevoli. E ancora antichi tessuti, ricami in seta policroma, paliotti, pianete, mitrie, piviali, tonacelle, costituiscono il “giardino” che mi suscita stupore ammirato.
Esco sul corridoio monastico e incontro un suggestivo affresco raffigurante San Benedetto e il Re Totila dei Goti attribuito a Bernardino Cervi recentemente scoperto che illustra un incontro giocato sulla sostituzione di persona. Poco più avanti, il Museo dell’Abbazia con dipinti provenienti dal monastero o frutto di donazioni. Mi trovo alla grande croce dei corridoi monastici e a est della chiesa, vicina a due dei quattro chiostri in origine costruiti nel corso del XVI secolo. Il Cortile della Spezieria, già della Porta o della Fontana, era uno degli spazi più importanti del monastero posto immediatamente a ridosso della chiesa e in origine ingresso stesso dell’Abbazia.
Definito un tempo da tre giri di porticati e con il lato della chiesa caratterizzato da un ricco fregio policromo, è lo spazio più trasformato dell’intero complesso. Già nel terzo decennio del ‘600 sono stati eliminati, nell’intento di ampliare gli spazi monastici attigui, i porticati di cui sono in parte ancora leggibili le tracce. Oggetto di un ampio lavoro di recupero promosso dai Padri Benedettini tra il 2000 e il 2014, ha recuperato la sua fontana ipogea, sepolta nel corso del tardo 800, nonché la funzione di giardino compartito in grandi aiuole quadrangolari già funzionale all’attigua spezieria monastica, che costituiva un filtro tra lo spazio riservato alla clausura e quello funzionale all’accoglienza e alla cura pubblica. Mi affaccio e lo percepisco profumato di rose e lavande, di erbe aromatiche, di agrumi e di frutti, seducente di peonie, frequentato da uccelli, insetti (farfalle, api), un luogo di visite rasserenanti. Percorro il lungo corridoio monastico in cui occhieggiano parte degli scavi archeologici con i resti della chiesa duecentesca prima di accedere al Chiostro delle Colonne, che sarà anche la mia via di uscita, e che una finestra evidenzia nelle sue ricchezze e necessità.

Chiostro delle colonne

Separato dalla manica del corridoio nord-sud, già ingresso al Monastero e oggi del Tribunale, si apre il monumentale Chiostro Grande, detto delle Colonne, lo spazio più importante dell’intero complesso e un tempo riservato ai soli monaci. Terminata la nuova chiesa abbaziale di San Pietro nel primo decennio del ‘500, si provvide alla progressiva demolizione del vecchio monastero e alla ricostruzione del nuovo, realizzando due grandi corridoi disposti a croce che ne costituivano l’ossatura. Una disposizione, questa, che permetteva di suddividere lo spazio monastico in quattro aree, ognuna delle quali caratterizzata da un chiostro (se loggiato) o cortile (se non loggiato), destinati a specifiche funzioni. Considerato per Modena il primo e più bell’esempio in grande scala di architettura rinascimentale con ornamenti di terracotta in coerenza con quelli utilizzati nella chiesa, il chiostro si presenta compartito in 7 archi per lato con colonne in pietra di Lessinia, che arrivava da Verona in blocchi semilavorati lungo il Po e attraverso il Naviglio, e in macigno d’arenaria dell’Appennino modenese; vede l’utilizzo in modo seriale, primo caso in città dell’ordine ionico, che si vuole suggerito o ispirato dallo stesso Correggio, artista particolarmente vicino ai benedettini. A seguito delle soppressioni sia napoleoniche sia postunitarie, questa parte è stata adattata a caserma da cui conseguirono importanti trasformazioni che non ne hanno comunque minato l’importanza. Oggi è oggetto di recupero con sostegno promosso da ArtBonus, beneficio che consente un credito di imposta del 65% per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo, utilizzato da Enti e mecenati, che ne hanno consentito il restauro nel fronte meridionale. Diversi sono i proprietari dei muri del chiostro raccordati in convenzione: i lati ovest e est sono del dell’Agenzia Demanio e affidati ai benedettini e quelli e sud dell’Amministrazione comunale. Ora, i benedettini cassinesi del Monastero di San Pietro lanciano un appello per sensibilizzare la cittadinanza sul valore storico-artistico del Chiostro delle Colonne e sostenerne il completo recupero che ne consentirebbe l’uso per iniziative culturali e ricreative.

Per maggiori informazioni, è possibile consultare il sito:
www.unacolonnapersanpietro.it


 
 
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